mercoledì 1 luglio 2015

MITIKO VINICIO 4 – Dimmi Tiresia


Continua l’esame delle canzoni mitike di Vinicio Capossela iniziata QUI e proseguita QUI  e QUI

PAROLA DELL’INDOVINO
(un immaginario botta e risposta tra un aedo e un cantautore)


Dimmi Tiresia
Dal regno dove mai nessuno si è recato
Versami il sangue
Scavami un botro
Un buco per sbirciare tra il mio destino e il Fato
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Nella terra dei Cimmeri, là dove il sole è debole e va a morire ogni giorno, Vinicio Capossela ci conduce a un’altra figura mitika: l’indovino cieco Tiresia, cui ogni marinaio perso nella vastità del mare vorrebbe chiedere il futuro.
Ma, nonostante il titolo della canzone e l’appellazione, il protagonista è solo apparentemente il veggente: siamo comunque nell’album “Marinai, profeti e balene” e quindi il vero fulcro della canzone non è la profezia del vate, ma chi pone la richiesta, ovvero il marinaio per eccellenza Ulisse.

Come era accaduto esplicitamente per la canzone Nostos il modello per Capossela sembra ancora una volta Dante: il Ghibellin fuggiasco parla di Tiresia, e lo colloca all’Inferno, nella quarta bolgia dell’Ottavo cerchio, riservata a maghi e indovini; l’attacco della parte a lui riservata è
Vedi Tiresia, che mutò sembiante …
(Dante, Commedia, Inferno XX, 40-42)
A sottolineare questa discendenza dal Padre della Lingua Italiana, il medesimo sintagma linguistico dantesco (verbo all’imperativo + nome di Tiresia) qui viene ripreso, leggermente modificato (“Dimmi” e non “Vedi”, poiché ci si rivolge a due persone diverse nei due episodi) diventando anafora martellante.

Come Dante all’Inferno incontrò Tiresia e poi Ulisse, prima del fiorentino lo stesso Ulisse d’Itaca si recò agli Inferi (che poi in Omero così Inferi non sono): oltre l’Alighieri la traccia di Capossela riprende, come è giusto, il canto XI dell’Odissea, la Nekyia, la discesa agli Inferi, il punto estremo cui può giungere un viaggiatore.
Spento il giorno, e d’ombra
Ricoperte le vie, dell’Oceáno
Toccò la nave i gelidi confini,
Là, ’ve la gente de’ Cimmerj alberga,
Cui nebbia, e bujo sempiterno involve.
Monti pel cielo stelleggiato, o scenda,
Lo sfavillante d’ôr Sole non guarda
Quegl’infelici popoli, che trista
Circonda ognor pernizïosa notte
(Omero Odissea, XI, 15-23)

Così recita la classica versione di Ippolito Pindemonte. 

Ulisse giunge alla terra dei morti, camminando in riva alla corrente di Oceano, assieme all’ultima nave e alla compagnia picciola che gli era rimasta, su indicazione della Maga Circe, figlia del Sole. Al più grande indovino della Grecia degli Eroi, l’uomo dalla mente tortuosa deve chiedere lumi sul suo futuro.
Su indicazione di Circe, ecco che Ulisse scava “la fossa cubitale” (come dice Pindemonte)

[...] e mele
Con vino, indi vin puro, e lucid’onda
Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste
Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.
(Omero Odissea, XI, 31-42)

Fatte le invocazioni, ecco che occorre aprire la porta tra il mondo degli Uomini e quello dei Morti, il “buco per sbirciare tra il mio destino e il Fato” di cui canta Vinicio.
Perché chiedere ai morti, alla loro preveggenza su cui Dante stesso si interroga nel canto X dell’Inferno? I poteri di Tiresia sono rimasti anche nell’aldilà, dunque? Quanto sopravvive dell’uomo oltre la nera soglia?
Forse, più semplicemente, i morti sanno il nostro futuro perché sono il nostro futuro: “Tu sei come noi fummo, noi siamo come tu sarai” dice l’adagio.

Comunque sia, Ulisse va.
Cerca Tiresia che fu un tempo uomo e un altro donna, ma non interrogherà una donna vera, anzi respinge inizialmente l’ombra della madre Anticlea.
Eppure la femmina, madre e prefica era lo specchio della madre Terra Gea che fa crescere la vita, “ne sustenta et governa” e accoglie i morti sepolti. Per questa ragione la donna era spesso la privilegiata nel contatto con i morti: a chi si rivolse un empio Saul, l’uomo che ormai ha perso la strada dritta che conduce a Dio, per interrogare l’ombra del profeta Samuele, se non alla strega di Endor? E Hermodr lo Svelto (o il Coraggioso) scese nello Hel per pregare Hela, mentre suo padre Odhinn interroga la Volva, la Veggente, sul prossimo Ragnarokkr.
In fondo a filare il destino di ogni uomo sono le tre sorelle, le Moire in Grecia e le Norne in Scandinavia: ma se Atropo taglia il filo della vita solo al momento giusto (per altri eroi sarà fiabescamente un capello) dimostrando più inevitabile opportunità che preveggenza, Skuld vede il futuro.

Ulisse cerca l’indovino maschio perché siamo nel maschilizzato mondo Omerico: qui Cassandra profetizza il vero ma non viene creduta, la Sibilla Cumana vuole solo morire e la Pizia è una povera giovinetta delirante e posseduta dal dio.
E’ il mondo dove Calcante domina, e Ulisse non cerca la profezia di Manto ma quella del padre di lei Tiresia.

Per ottenere l’aiuto dei morti non bastano le preghiere, ma occorre il sacrificio cruento: bisogna restituire a loro, temporaneamente, parte della vita. Ecco dunque il sacrificio di due vittime, un montone e una pecora. Subito le anime si precipitano, ma Ulisse le scaccia con la spada, come se le ombre temessero ancora il ferro.
Finalmente si avvicina Tiresia, con in mano “l’aureo scettro” proprio della sua funzione.
L’arte di Omero fa sì che l’indovino si rivolga al vivente con un interrogativo, rovesciando in apparenza quello che deve essere il rapporto tra lui e Ulisse:
Uomo infelice,
Perché, del Sole abbandonati i raggi,
Le dimore inamabili de’ morti
Scendesti a visitar? Da questa fossa
Ti scosta, e torci in altra parte il brando,
Sì ch’io beva del sangue, e il ver ti narri.
(Omero, Odissea, XI, 124-129)
Che i poteri di Tiresia siano indeboliti e lui come un vampiro abbia bisogno del sangue per riprendere vigore? O, visto che il sangue fa da porta, Tiresia deve berne per vedere al di là di quella soglia dalla parte dei morti, che non possono vedere il futuro perché la loro umbratile esistenza è fatta di un non-tempo sempre uguale (il sole non splende sui morti, quindi implicitamente il tempo per loro non trascorre) in cui l’unica dimensione temporale è quella del passato.
Il Mitiko Vinicio immagina la risposta dell’Itacense:
Bevi il mio sangue
Che porti alla memoria la coscienza di chi ero e sono stato
Ma è meglio sapere o non sapere
Aver la conoscenza
Sapere o non sapere
Quello che poi mi sporcherà
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Novello Amleto, l’Ulisse caposseliano si trova sperduto, indeciso se essere o non essere. “Chi ero e sono stato?” si chiede, e davvero vuol sapere “quello che poi mi sporcherà”, le azioni anche crudeli e spietate che dovrà compiere?
Perché il dubbio è quello eterno del marinaio, quello che avrebbe portato all’ultima domanda di David Bowman al Monolite Nero su Europa se il secondo episodio di “Risvolti mitologici nei rapporti tra giovani uomini e giovani donne” fosse mai stato disegnato dalla mano fatata di Paciolus:
Dimmi Tiresia
Affido a te il mio viaggio
Alla tua sentenza
Tu che già sai, com’è filato il mio cammino
Sapere o non sapere
Se la donna mia mi aspetta se è fedele
Sapere o non sapere
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Si esplicita il parallelismo tra Ulisse e il Corrucciato Principe Danese. L’eroe greco narrerà fantasiose storie di pirati del Mediterraneo e dovrà tornare per vendicarsi dei Proci; Amleto nel viaggio in mare verso l’Inghilterra e l’assalto dei pirati trova paradossalmente la sua libertà e la possibilità di operare la sua vendetta.

Dimmi Tiresia
Quali stratagemmi dovrò ordire
In quale forma mi dovrò nascondere
Dimmi Tiresia
Ma è meglio sapere o non sapere
E non poter più credere
Sapere e poi dovere
Portare fino in fondo il compito
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Ulisse dovrà celare il suo aspetto, scoprire chi è fedele e chi non lo è: la sposa? Il figlio? I servi?
E’ di fronte allo scoglio più duro, all’ “essere o non essere”: come Amleto deve scegliere se sapere (“essere”) ed ottenere l’obbligo di portare fino in fondo il suo compito di vendetta, anche contro chi, forse, non avrebbe mai voluto, o non sapere (“non essere”) e avere la libertà dell’inconsapevolezza.
Lo sfaccettato Ulisse che sarà di Dante non può venir meno all’imperativo del “seguir virtute e canoscenza”, non può negarsi “l’esperienza”. Le sue domande a Tiresia sono retoriche, la risposta è già insita nel fatto che è giunto fino alla terra dei morti per avere quella conoscenza che, al momento di ottenerla, dubita di volere.
Dimmi Tiresia
E’ duro profetare
La conoscenza è distanza che separa
La fatica di conoscere
E’ più grande fatica di essere creduti?
Dimmi Tiresia
Tu che dimentichi e ricordi e poi dimentichi
E così purifichi
A che mi servirà sapere
Saper il mio destino come già deve compiersi
E poi non esser più creduto dai compagni
Soltanto dai segni nei sogni
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)

“La conoscenza è distanza che separa \ La fatica di conoscere \ E’ più grande fatica di essere creduti?”
Questo è il punto.
Sapere prima, saltare i passaggi: è veramente utile avere la conoscenza senza esperienza? Chi crederà al profeta? L’Ulisse di Capossela già pre-vede la rovina dei suoi compagni sull’Isola di Trinacria, i suoi sforzi vani di salvarli, non ha bisogno che Tiresia glielo riveli.
Il Fato, lo stesso che condusse inevitabilmente Edipo al parricidio, a Tebe e all’incesto, non si può cambiare con la conoscenza anticipata. Anzi: il sapere il destino che attende, il voler contrastare quello stesso destino è il vero motore che porta al compimento dello stesso.
La colpa di Edipo non è un “peccato” come l’incesto: la sua hybris è la presunzione di sapere tutto, di poter gestire il suo destino come gli dei che sanno leggere il telaio in cui è intessuta la vita di ogni uomo.
La speranza è dunque una sola:
Dimmi Tiresia
Togli la sete
Conoscilo e poi scordalo
Bevi di questo Lete
Conoscilo e poi scordalo
La conoscenza è niente senza fede
Conoscilo e poi scordalo
La conoscenza è niente senza fede
La conoscenza è niente senza fede
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Questo è l’Ulisse caposseliano: l’uomo che trova sé stesso (Borges parlerebbe di giustificazione della propria esistenza) nella tensione verso l’obiettivo, non nel suo raggiungimento. L’uomo che ha bisogno dell’ignoto per essere vivo.
L’uomo che, di conseguenza, quando conosce deve dimenticare, bere dal Fiume Lete che si trova negli Inferi (e che Dante sposterà nel Paradiso Terrestre accanto all’Eunoè, il fiume che mantiene i ricordi del bene fatto). Scordare per riprendere l’eterna fatica di Sisifo vista in una prospettiva positiva
Per la stessa ragione del viaggio
Viaggiare
(F. De Andrè \ I. Fossati, Khorakhané)
I dubbi si sciolgono e il profeta parla. Non serve riportare Omero, tanto Capossela nel suo recitato finale è fedele, se non che tralascia di raccontare il viaggio per mare che ancora attende Ulisse nell’Odissea: l’odio di Poseidone, la profezia della rovina dei compagni e dello sterminio dei Proci.
Quello che interessa il nostro Vinicio è “l’altro ultimo viaggio di Ulisse”, dopo quello narrato in Nostos (che però nell’album è la traccia successiva a Dimmi Tiresia), quando
Uccisi
Dunque o per frode, o alla più chiara luce,
Nel tuo palagio i temerarj amanti,
Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti
(Omero, Odissea, XI, 158-161)

Un viaggio con uno strumento di navigazione, un remo, ma da fare per terra, fino a giungere là dove nessuno conosce il mare, dove nessuno conosce Poseidone lo Scuotiterra

Nè cosperse di sal vivande gusta,
Nè delle navi dalle rosse guance,
O de’ politi remi, ali di nave,
Notizia vanta.
(Omero, Odissea, XI, 164-167)

E’ l’omaggio più grande che si possa fare a un dio irato: piantare il remo come una bandiera di possesso, portare il suo culto là dove non è mai giunto prima, dove non potrebbe giungere.
Ma leggiamolo dalle parole di Vinicio Capossela
Vai oltre il ritorno
Porta sulle spalle un remo
Abbandona la casa e vai errante nel sole
Fino a gente che non batte il dorso del mare
Che non conosce i cibi conditi col sale
Che confonderà il remo con un ventilabro
Un rastrello per spargere intorno sementi
Per pettinarle nelle crine dei venti
Lì lo poserai offrirai sacrifici
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
E quali saranno questi sacrifici? Un suovetaurilia (un maiale, una pecora e un toro) secondo il rito indoeuropeo che tante volte vedremo rappresentato nei rilievi romani, e poi tornato a casa delle ecatombi a tutti gli dei.
Solo così
La morte ti coglierà dal mare
Consunto da splendente vecchiezza
Tra gente felice attorno
Questo ti dico senza tema nè dubbio.
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Se Tiresia promette anche in Omero la morte in tarda vecchiaia, Pindemonte dice però
E a poco a poco da muta vecchiezza
Mollemente consunto, una cortese
Sopravverrà morte tranquilla, mentre
Felici intorno i popoli vivranno.
(Omero, Odissea, XI, 179-182)
Da dove trae Capossela la notizia della morte che coglierà Ulisse dal mare?
La versione greca di Omero parla di morte “ex alòs”, che può essere tradotta “dal mare” o “lontano dal mare”. Insomma: Ulisse morirà pacificamente o a causa del persistere della vendetta di Poseidone?

Narrano mitografi successivi al cieco aedo di Chio che di ritorno dalla terra che non conosce il mare, Ulisse scoprì che il figlio avuto da Penelope, Telemaco, si era dato un esilio volontario da Itaca: il giovane aveva scoperto una profezia secondo la quale Ulisse sarebbe stato ucciso dal suo stesso figlio.
Non sapeva Telemaco che, durante la sua permanenza di un anno da Circe “là presso Caieta prima che Enea sì la nomasse”, Ulisse aveva generato nella maga un figlio, Telegono.
Divenuto adulto, Telegono andò alla ricerca del padre, e sbarcò di notte. Gli Itacensi pensarono a un attacco di pirati e chiamarono in aiuto Ulisse, che subito accorse: ci fu uno scontro e nel buio Telegono colpì il padre mortalmente con una lancia con la punta di razza. Così si compì la profezia. [1]

In seguito Telegono fu purificato dal suo involontario delitto e sposò la sempre giovane Penelope; il fratellastro Telemaco, tornato dal volontario esilio, sposò la maga Circe: così i due rami della discendenza di Ulisse si unirono di nuovo.[2]


[1] Robert Graves, ne I miti greci, 171.3 (che rimanda a 93.a e .c) collega la morte di Ulisse per mano di Telegono alla vicenda di Catreo, re di Creta, e di suo figlio Altemene, un mito simile in alcuni tratti e in altri opposto.

Una profezia diceva che Catreo sarebbe stato ucciso da suo figlio; così Altemene, come Telemaco in seguito, partì in esilio volontario a Camiro di Rodi. Arrivato a tarda età, il padre volle andare alla ricerca del figlio: i cretesi sbarcarono nella notte a Rodi e dei mandriani li scambiarono per pirati. Le spiegazioni di Catreo furono coperte dall’abbaiare dei cani, Altemene accorse e con una lancia colpì a morte il genitore. Quando finalmente si scoprì la verità, Altemene pregò che la terra si aprisse e ne fu ingoiato, benché ancora in epoca storia gli si tributassero onori eroici.

Lo svolgimento dei due miti (se vogliamo lo sbarco e l’incomprensione si trovano in un’altra forma anche nel mito di Telefo che abbiamo esaminato QUI) prevede un rovesciamento: qui è il vecchio padre a cercare il figlio, e non viceversa; allo stesso modo il figlio uccide per errore il padre (Telefo fu ferito da Achille, ma non erano parenti stretti; Edipo uccide per errore il padre Laio; Perseo colpisce a morte, non volendolo, il nonno Acrisio con un disco durante dei giochi), ma invece che sposare la matrigna, e quindi ereditare il regno, Altemene sparisce in una voragine.

Il suo sparire e il culto eroico che gli viene dedicato, ricordano in alcuni aspetti il destino di Anfiarao dopo l’infausta spedizione dei Sette contro Tebe.

Nell’epopea iranica Sohrab dalle Labbra Sorridenti andò alla ricerca del padre Rostam figlio di Zal, di cui aveva solo sentito parlare: per gli intrighi di Afrasiab i due non si riconoscono e Rostam uccide per errore il figlio, poi disperandosi.

Artù uccide (e viene ferito mortalmente da) suo figlio Mordred dopo uno sbarco, ma i due sapevano benissimo contro chi combattevano, e volevano uccidere l’altro.

[2] Sempre Graves, I miti greci, 171.4 vede in questo doppio matrimonio incrociato un evento eccezionale, anche se poi cita il matrimonio tra Illo, figlio di Eracle, e Iole, concubina del padre.


NB: testo (specie quello della canzoni di Capossela) e immagini non mi appartengono, ma sono tratte dal web a corredo di questa analisi. Le citazioni da Omero sono dalla classica traduzione di Ippolito Pindemonte. Questo blog non ha fini di lucro.